Se c’è una cosa che, più di tutte, mi ha sempre affascinato della pallavolo, questa è la capacità che dà – soprattutto a quelli bravi – di ingannare il tempo e lo spazio. Stare in aria pochi attimi che sembrano un’infinità. E decidere in fretta, ma con una calma inscalfibile per chi guarda dal basso, cosa fare. Il momento preciso in cui il salto arriva alla sua massima estensione e il cervello sta comunicando a muscoli, nervi e ossa come dovranno comportarsi. Schiacciare, angolare o appoggiarla con un beffardo pallonetto. Seguire la linea o incrociare.
Ecco. Quel momento lì – quell’istante in cui il tempo si ferma e tu puoi decidere cosa fare della palla e del tuo corpo – contiene, secondo me, tutta la magia di questo sport.

Quando mi hanno proposto di scrivere questo libro mai avrei pensato che sarei finito – anche – a parlare di me. Attraverso la pallavolo, poi. Adoro il calcio e il ciclismo, e non sono mai stato un profilo esile, o del tutto magro, diciamo. Di certo non si può dire che, trovandomi più vicino alle quaranta primavere che alle trenta, io possa ancora crescere qualche centimetro in più dei centosettantatre dichiarati sulla carta d’identità.

Chi non mi conosce, e mi vede per la prima volta, di tutto mi potrebbe dire, ma di certo non che io sia stato in passato un giocatore di pallavolo. E invece sì, paffuto, basso e goffo. Tra i tredici e i diciassette anni vissi una discreta gloria – iperlocale, intendiamoci – nell’allora Tredicesimo municipio di Roma, quel lembo di terra compreso tra Ostia e Acilia, che io amo follemente, ma che fuori dai confini romani è percepito come il Bronx degli anni Settanta.
Mi scoprii, quasi per caso, un bravo alzatore. Si vinsero anche dei tornei. Con Flavio, Daniele, Christian, che una beffarda malattia si è portato via troppo presto, e poi Andrea e Giovanni. Ho perso i contatti con tutti loro, ma c’è stato un periodo della nostra vita in cui noi sei eravamo forti. Cavolo, se lo eravamo.

Poi accadde quello che accade sempre in questi casi. Quello che accade se non sei un predestinato dello sport: il resto del mondo a me coetaneo continuò a crescere verso l’alto. Io un po’ meno. E poi scoprii che oltre al volley – e al calcio, che di certo non mettevo in secondo piano – esistevano anche le ragazzine, la musica e i libri. E finì tutto, così. Per caso. Come era nato.

Di quegli anni però, la cosa che ricordo più chiara di tutte fu l’inizio della mia avventura con la pallavolo. La nascita dell’amore. Posso dire, con assoluta certezza, che la coppa del mondo vinta nel 1990 rappresentò per me quello che per migliaia di ragazze furono i cartoni animati di Mila e Shiro. Il carburante, la spinta, la marcia per partire e iniziare a sognare.

28 ottobre 1990. Una data difficile da dimenticare. Si può dire che, sportivamente, io sia diventato grande quell’anno. Durante Italia ’90 avevo scoperto la delusione della sconfitta. I rigori contro l’Argentina, fatali, e la domanda tanto ingenua quanto vera rivolta ai miei genitori: «Ma è finita così? Non c’è un altro modo per andare in finale?». No, non esisteva un piano B, una seconda chance. E, nella mia ingenuità, io questo non lo sapevo. Era tutto finito. Con quella voglia di urlare – «Campioni del mondo!» – che rimase lì. Strozzata in gola.

Mio padre si è fatto il mazzo per una vita. Anzi, ha fatto il turno di notte, per una vita. Usciva di casa alle dieci di sera, dava un bacio a mia madre, a me e a mia sorella e ritornava a casa la mattina alle cinque. Io e mia sorella certe volte ci addormentavamo nel lettone con mia madre e lui quando rincasava, stanco dal turno, col desiderio del letto ormai concretizzato e a un solo passo, ci prendeva in collo e ci portava nei nostri rispettivi letti.

Alla fine di ogni turno di notte mio padre rientrava a casa con il giornale. A casa mia si è sempre letto Il Messaggero. Non so voi cosa ne pensiate, ma per me il giornale del mattino è speciale. Il primo, dico. Ha un sapore diverso. Anche l’odore ha qualcosa che lo rende differente dal resto dei giornali che puoi trovare in edicola, che so, dalle otto di mattina in poi. Il giornale della notte sa di stampa e di inchiostro, sa ancora di sudore, di prodotto espresso. E il suo profumo ti entra nel naso e nel cervello, insieme agli odori della colazione e delle panetterie che iniziano a lavorare.

Se qualcuno mi chiedesse di descrivere il mondo che si risveglia, senza nemmeno pensarci risponderei che ha le mani ruvide di mio padre che mi prende in braccio per riportarmi a letto e l’odore di carta di giornale e pane appena sfornato. La vita che ricomincia. Ogni mattina.
I miei genitori mi insegnarono a leggere il giornale già da ragazzino. E così a nove anni, in quell’ottobre del ’90, io conoscevo già parecchie notizie, capendone poche. Si parlava di nuovi simboli politici, falci e martello e nuovi partiti. C’era Occhetto che era un nome che mi faceva sempre un sacco ridere. Comparivano negli esteri i nomi di hutu e tutsi e scoprii per la prima volta dove stava il Ruanda e che c’era poi un muro, in Germania, da buttare giù. Quella forse, più di tutte, era la notizia che capivo meglio.

Imparai subito a cercare le pagine dello sport. Ovviamente. E mi ricordo che i giornali in quel periodo parlavano tanto di pallavolo e di quanto fosse forte la nazionale, impegnata nei mondiali in Brasile. Così andai a cercarmi qualche partita in televisione e fu amore a prima vista. Amore per quello sport e per quel sestetto titolare che imparai – velocemente – a memoria: Tofoli, Gardini e Lucchetta, Cantagalli, Bernardi e Zorzi. Recitato così. Come una filastrocca. Lo sapevo anche al contrario. Zorzi, Bernardi, Cantagalli, Lucchetta, Gardini e Tofoli. Mi rendo conto, soltanto ventotto anni dopo, di avere avuto – e avere tutt’ora – anche io il mio personalissimo Sarti, Burgnich e Facchetti. In panchina poi c’erano dei nomi che, di lì a qualche anno, si sarebbero fatti conoscere per fama e forza: uno su tutti, Andrea Giani.

Quella dell’Italia del 1990 è stata una vera e propria cavalcata trionfale. Un tonfo iniziale con Cuba e poi soltanto vittorie. La semifinale vinta nel “piccolo Maracanà”, contro il Brasile in un palazzetto infuocato, che se è soprannominato così ci sarà un motivo, no? E poi la finale. Ancora Cuba. La squadra che pochi giorni prima, all’inizio della manifestazione, ci aveva annichilito con un secco 3 – 0.

E pure la finale non inizia per niente bene. Cuba vince subito il primo set. E in pochi ci credono. Io, per primo, ho già i lucciconi. Però per fortuna i ruoli vengono rispettati: io faccio il ragazzino, che frigna per una possibile sconfitta, e gli atleti fanno gli atleti. E cioè ci credono, fino alla fine. Vincono il secondo set e si portano sull’1 – 1. E poi anche il terzo. L’Italia passa in vantaggio e forse – forse – tutto si deciderà nel quarto set.

Si tratta di un momento assurdamente equilibrato. Si procede a oltranza un punto alla volta. Punto e cambio palla. Diamo per scontato, in questo racconto, che anche i lettori più giovani conoscano le «vecchie» regole della pallavolo. Punto e cambio palla. Punto e cambio palla. Un incredibile susseguirsi di mini-fughe e pareggi. Da una parte e poi dall’altra. Finché, in perfetto equilibrio, non si arriva sul 14 – 15 per l’Italia e qui inizia un’altra storia.

Tutta. Un’altra. Storia.

Zorzi serve per il match. Cuba riceve e Despaigne spara con tutta la rabbia e la potenza che ha in corpo sul muro azzurro, che non riesce a controllare la traiettoria. Fuori. Match point annullato.

Despaigne alla battuta. Giocata facile. E l’Italia con Cantagalli riconquista subito la palla. Possiamo servire ancora una volta per conquistare il mondo.

Batte Cantagalli. Si gioca in maniera un po’ confusa, Despaigne la rimanda dillà, noi la teniamo in campo in qualche modo e la ributtiamo in campo nemico, ma è troppo facile anche questa giocata, e Cuba la schiaccia dalla nostra parte. Ovviamente sempre con Despaigne. Ovviamente sempre punto. Ancora un match point annullato.

Batte Cuba. Ottima la nostra ricezione, alzata per Bernardi, che non sbaglia. Non ricordo una volta che Bernardi abbia sbagliato, in effetti. Cambio palla e torniamo a servire per il match.

In battuta ci va Lucchetta. Lui, il capitano dalla capigliatura assurda e buffa. Quello che sembra sempre scherzare e sfottere il mondo e che quindi prende le cose dannatamente sul serio. Batte da lontanissimo. Me lo ricordo come se fosse qui, ora, davanti a me. È più vicino ai tifosi che al primo dei suoi compagni. Batte senza saltare. Sembra quasi voler dare ai cubani la possibilità di giocare una palla pulita, per consentire al nostro muro di bloccare l’attacco. Purtroppo però non abbiamo fatto bene i conti con chi c’è dall’altra parte. Despaigne è il martello più martello che c’è. E segna il punto. Cambio palla e altro match point annullato.

Valdes in battuta. Riceve Cantagalli, alza Tofoli e Gardini consegna la palla al parquet, senza lasciare a nessun cubano la facoltà di interporsi tra palla e terra.

Tofoli alla battuta. Sembra un girone del purgatorio dantesco. Mi immagino un intero palazzetto dello sport, pieno di anime costrette a guardare una partita di pallavolo infinita, bloccata sul 14 – 15. La pena per gli indecisi. I cubani comunque ricevono da Tofoli e giocano la palla sulla seconda linea – che è Despaigne – e annullano ancora una volta un match point. Se un giorno dovessi esprimere un desiderio davanti a un genio della lampada, vi giuro che chiederò la calma e la forza di quel numero quattro cubano, che sta sfidando da solo un’intera nazione. Senza paura di sbagliare.

Batte Cuba. I caraibici sembrano iniziare a crederci. Se stanno annullando tutti i punti vittoria, cosa gli manca allora per poter pareggiare e magari provare a vincere il set? È una battuta al salto. La ricezione è difficile, l’alzata pure. Poi arriva Zorzi, che fa quello che io non sono mai riuscito a fare, ma di cui parlavo all’inizio. Zorro salta e ferma il tempo. Si beffa dello spazio, elimina – da una posizione complicatissima – tutti i cubani dalla sua visuale e piazza la palla, là dove non c’è nessuno. In venti centimetri quadrati di pavimento libero, che in quel momento vede solo lui. Abbiamo ancora una palla match.

Batte Bernardi. Il giocatore più calmo e pacato. Quello che c’è sempre. Che non tradisce mai. Quello a cui affideresti le chiavi di casa o della macchina, ma a cui in quel momento chiedo di regalarmi il punto finale. Perché sarò pure un ragazzino di nove anni, ma la tensione inizio a comprenderla abbastanza velocemente. Non c’è nulla da fare, però. Despaigne schiaccia contro il muro così forte che la palla finisce addirittura in tribuna. Un armadio, con la maglia numero quattro di Cuba, si sta fregando tutti i nostri palloni della vittoria. Ancora oggi, io, una cosa del genere non credo di averla rivista.

Batte Cuba. Stavolta chi è andato in battuta ha avuto un po’ di paura. Non è nulla di eccezionale. Riceviamo bene e il solito Zorzi schiaccia a terra. Abbiamo il sesto match point.

Se lo gioca Gardini. Questa volta Despaigne sbaglia, o forse è Bernardi che in ricezione fa un miracolo, fatto sta che la palla resta in gioco e possiamo contrattaccare: Zorzi schiaccia, ma riceve bene anche Cuba, che alza di nuovo. Despaigne una volta può farsi tradire dal braccio, ma due no. Non sbaglia. Cambio palla.

Stop.

Fermiamo il tempo. Fermiamoci a ragionare su cosa sta succedendo. Mondiali. Cuba contro Italia. Finale. Quarto set. Siamo in vantaggio 14 – 15. Abbiamo già servito sei volte per cercare il punto finale. E per sei volte Cuba lo ha annullato. O dovremmo dire Joel Despaigne. Alla voce equilibrio, nel vocabolario dello sport, c’è questa partita. Alla voce ostinazione, c’è invece la foto di Joel Despaigne.

Batte Hernandez. Cantagalli-Tofoli-Lucchetta. Con un’azione di una velocità inaudita – che capisco solo al secondo replay – l’Italia si riprende il servizio. Per la settima volta.

Batte Zorzi. Forza un po’. Cuba riceve male e di conseguenza Despaigne non può che accennare una schiacciata, ma è più un ributtare la palla oltre la rete. Dall’altra parte. Dillà. Sembra fatta, la giocata è buona, alzata per Cantagalli… FUORI. Stavolta non è Despaigne, un frigorifero a due ante, a dirci di no. Siamo noi. Noi da soli a buttarla fuori. Caricando una palla di troppa forza e troppe aspettative. Cambio palla, tanto per cambiare.

Despaigne batte. Per alcuni azzurri sarà un sollievo vederlo così lontano da sotto rete. Non rischia, l’Italia può giocare facile su Zorzi che arriva dalle retrovie e schiaccia. Cambio palla. Ottavo match point.

Batte Luca Cantagalli. Direttamente fuori.

Batte Cuba, riceve Italia e spunta un numero 9, all’improvviso, che fa passare la palla in mezzo al muro. Si tratta ancora di Bernardi. Cambio palla. Nono match Point.

Di nuovo Lucchetta in battuta. Tiene la palla in mano, coi polpastrelli ne assapora le curve e la sfericità, come fosse il mondo. Tutto va come da copione. Cuba riceve e Despaigne spara una bomba ma – ebbene sì, c’è un “ma”, ed è grosso – Lucchetta, che aveva appena fatto in tempo a rientrare dalla linea di battuta, si accartoccia su sé stesso e tiene viva la palla. Un mezzo miracolo, tra il goffo e il gesto atletico fenomenale. La giocata non è delle più facili, ma la palla finisce in campo nemico. Dillà. Perché è ormai una guerra. E anche loro sono stanchi. Non sembrano due squadre di volley, ma due pugili alla quindicesima ripresa. Rocky e Apollo, in Rocky II, ovviamente. Despaigne stavolta non schiaccia bene e il muro italiano funziona. La palla resta lì, tra la rete e un rimbalzo un po’ farlocco, e viene rimandata da noi, sul suolo italiano. Lucchetta la prende. Tofoli l’alza. Bernardi salta. «Bernardi!» urla in tv Jacopo Volpi della rai. «Bernardi!» grido io, davanti alla tv di casa mia. Il muro la tocca, ma la palla si impenna e schizza via. Lontano. Dove è impossibile prenderla. Punto. Finita. Fine. Siamo campioni del mondo.

«Campioni!» L’urlo che volevo cacciare qualche mese prima, tifando per Baggio, Giannini e Schillaci, lo posso finalmente liberare adesso, grazie a Zorzi, Lucchetta e Bernardi. Bernardi, col suo 9 sulla schiena, che salta imperioso e ci regala il mondo.

Dopo nove match point e quasi altrettante schiacciate di Despaigne, che ci hanno sempre rimandato indietro al punto di partenza. Come un gioco dell’oca, ma più cinico. Non so se è per il motivo giusto o sbagliato. Ma so che quella guerra di trincea e resistenza, a cui ho appena assistito, mi ha fatto definitivamente innamorare di questo sport e, finalmente, anche io ho vissuto la mia notte magica.

Federico, nove anni, vincerà qualche anno dopo un campionato scolastico di pallavolo, come alzatore e vicecapitano. Perderà un altro paio di finali fino a diciassette anni. Poche soddisfazioni da tifoso, in generale, nella vita. Quella sera però, per la prima volta, ha vinto un mondiale. E il gusto della prima vittoria iridata ha le dolci sembianze di Bernardi che si alza in volo, domina lo spazio e il tempo e poi decide di regalargli il mondo.

© Federico Vergari, Le sfide dei campioni, Tunué, 2019

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