Intervista con l’autore. Federico Vergari ci racconta qualcosa sul suo Vittorie imperfette.
Il tour di «Vittorie imperfette» sta per ripartire, dal 5 settembre ricomincerai a girare per il territorio pontino e non solo. Cosa ti porti dentro dopo ogni presentazione? Quando scrivo un libro c’è un momento preciso – che ho imparato a riconoscere – in cui mi rendo conto che quello che sto facendo non riguarda più me o l’editore o la redazione della casa editrice. C’è un momento in cui quello scambio intimo di e-mail contenenti bozze, correzioni, integrazioni ai capitoli finisce… e il lavoro diventa di tutti. Ecco gli incontri dal vivo in cui ho il piacere di raccontare «Vittorie Imperfette» sono il momento in cui tutto si incastra. In cui capisco “per chi l’ho fatto” e perché.
La lettura è una forma molto intima di comunicazione perché siamo noi e una voce nella nostra testa e sapere che qualcuno ha deciso di comprare il libro per qualcosa che fino a qualche mese fa era solo nella mia di testa… beh è un grande riconoscimento che mi dà al tempo stesso nuovi stimoli, ma anche un forte senso di responsabilità. Chi leggerà il libro mi dedicherà del tempo, una risorsa preziosa.
«Vittorie imperfette» affronta diversi aspetti della vita e dello sport. Per esempio, le differenze di genere, argomento per cui ci si batte molto nel mondo “fuori” ma ancora troppo poco nel mondo “sportivo”. Quali sono i modelli da abbattere secondo te? Credo che i modelli da abbattere siano più sociali che sportivi. Penso banalmente ai media e al tempo che dedicano agli sport maschili e a quelli femminili e a come questo si traduce nell’ “educazione” dello spettatore/lettore. O penso al sistema scolastico che è tuttora ancorato a concetti stantii come “la mamma sta a casa e cucina le torte e il papà torna a casa la sera…”. Basta dare un’occhiata a un libro di testo delle elementari per capirlo. Inizierei a lavorare da qui.
Cosa ti ha portato a scegliere di parlare proprio di vittorie imperfette? E con quale criterio hai scelto i personaggi di cui parlare? A me e a Giovanni Di Giorgi (il direttore editoriale) piaceva l’idea di raccontare le seconde opportunità che spesso abbiamo tutti anche nella quotidianità, ma non sempre ce ne accorgiamo. Essere dei campioni significa saperle riconoscere e sfruttare. Una vittoria imperfetta è sicuramente più faticosa, ma è senza dubbio più soddisfacente e più interessante da raccontare. I personaggi li abbiamo scelti cercando un equilibrio nelle loro storie. Tutti hanno un comun denominatore: davanti a una difficoltà (un infortunio, un lutto, un incidente, un’età ancora acerba, una discriminazione) non si sono arresi.
Se potessi assomigliare a uno dei tuoi “personaggi”, che poi sono tutti reali, chi sceglieresti? Se devo rispondere d’impulso ti dico Jordan. È da sempre un mio idolo. Ha vinto tutto, ha avuto una vita fantastica ed è uno dei pochi atleti che è riuscito a rimanere grande anche dopo aver terminato l’attività agonistica… insomma se devo sognare ti dico lui. Però parlando in termini meno fantasiosi ti dico Assunta Legnante. Lei era qualcuno prima di perdere la vista e non era scontato quello che poi è successo quando ha deciso che sarebbe diventata qualcuno anche a livello paralimpico. Questa è una storia di una potenza devastante. Un coraggio e una determinazione del genere sono merce rara e preziosa.
Ti sei commosso a scrivere le storie di Luca Zavatti o di Assunta Legnante? No sinceramente. Credo che il mio lavoro mi imponga di mantenere un certo di distacco con le storie che racconto. Ma al tempo stesso deve riuscire ad emozionarmi per poi ritrasmettere quelle sensazioni su carta… il mio obiettivo è portare storie così belle al maggior numero di persone e magari far commuovere chi legge. Quindi emozionato sì, commosso no. E penso sia giusto così.
Quanto potenziale ha secondo te il genere sportivo? Io credo che si possa far buona letteratura anche parlando di sport. Adesso è facile sostenerlo perché in Italia lo storytelling sportivo sta andando di moda. Ma quando questa moda passerà dovremo capire cosa sarà rimasto e su quello costruire una dignità letteraria per lo sport che oggi ancora non c’è. Tra 15-20 anni magari anche l’Italia avrà il suo David Foster Wallace che racconterà le debolezze dell’uomo attraverso metafore tennistiche. Ce lo meritiamo.
Intervista a cura di MIRIAM GUALANDI