L’autore di “Storia d’Italia del calcio e della Nazionale” si racconta ai nostri microfoni
Da passione considerata perlopiù una moda passeggera a sport più seguito a livello internazionale. Anche il calcio ne ha fatta di strada in quasi 200 anni di evoluzione continua, in campo e fuori. Nemmeno l’Italia si è sottratta al fascino del pallone, al piacere di un gol o all’adrenalina derivante dalla parata di un portiere. Ma come si è articolata questa storia così particolare? Alla domanda ha risposto Mauro Grimaldi. Consigliere Delegato della Federcalcio servizi, ha ricoperto incarichi altrettanto importanti come quelli di Segretario Generale della Lega Dilettanti e Vicepresidente vicario della Lega Italiana Calcio Professionisti. Dal 5 novembre è in libreria la sua opera “Storia d’Italia, del calcio e della Nazionale. Uomini, fatti, aneddoti (1850-1949)”, edito da DFG Lab. Un libro che ricostruisce la storia della Nazionale di calcio italiana, ricollegandosi ai fatti salienti della storia del nostro Paese. Grimaldi ha parlato del suo nuovo lavoro ai nostri microfoni:
Grimaldi, il suo libro “Storia d’Italia, del calcio e della Nazionale” si potrebbe definire un progetto ventennale, dato che le sue prime ricerche risalgono a circa vent’anni fa. Quando e come è nata l’intenzione di dedicarsi a questa ricerca?
“È un progetto che nasce da lontano ed è partito dall’analisi della genesi del calcio in Italia e la sua evoluzione nel ventennio. Da qui si è sviluppato quel parallelismo tra la nostra storia, quella d’Italia e la storia del calcio. Un percorso parallelo che nasce all’indomani dell’Unità d’Italia, attorno alla metà del XIX secolo che segue l’evoluzione sociale e ne mutua i modelli. È una storia affascinante che nel tempo si è trasformata in una mostra itinerante, ‘Un secolo d’azzurro’, con l’esposizione di centinaia di cimeli che ha raccolto l’interesse, nelle dieci tappe effettuate dalla fine del 2018, di migliaia di persone, anche da parte dei ragazzi e delle scuole. Mi sono reso conto, in questo modo, che il pallone era diventato uno strumento didattico per stimolare la curiosità dei ragazzi sulla storia del nostro Paese. Da qui un libro riassuntivo, che trae spunto dalla singole pubblicazioni che ho editato in questi anni, che attraverso un linguaggio comprensibile, ha come obiettivo quello di raccontare questa grande epopea che in questo primo volume abbraccia quasi un secolo di storia, dal 1850 al 1949, con la tragedia di Superga che chiude in modo drammatico un periodo importante per il nostro calcio ma terribile per la storia, con due guerre mondiali e milioni di morti”.
Negli ultimi anni alcuni club hanno chiesto di rivedere i primi campionati per cambiarne l’esito. Pensa che questo potrebbe condizionare in qualche modo la ricerca in un settore simile?
“Storicamente sono due i fatti rilevanti su questo tema. Il primo, rivendicato dalla Lazio, sullo scudetto della stagione 1914/15 assegnato, forse troppo frettolosamente dalla FIGC al Genoa quando venne interrotto il campionato a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio. Probabilmente la cosa più giusta sarebbe stato non assegnarlo, anche perché ad essere ‘penalizzata’ non fu solo la Lazio. Nel girone settentrionale c’era ancora una lotta aperta a tre squadre, tra cui il Torino, e la vincente del girone avrebbe affrontato la vincente del campionato del centro-sud. È chiaro che nessuno può sapere come sarebbe finito sul piano sportivo il confronto ma all’epoca il divario tra le squadre del Nord e quelle del Centrosud era enorme. Non è un caso che il primo scudetto di una squadra diversa da quelle dell’area settentrionale fu conquistato dalla Roma solo nella stagione 1941/42, cioè oltre mezzo secolo dopo dalla nascita del calcio. L’altro episodio, di cui tratto ampiamente nel libro, è la revoca dello scudetto al Torino nella stagione 1926/27 a causa di un illecito sportivo di cui fu protagonista uno dei più forti giocatori dell’epoca, tesserato per la Juventus, Luigi Allemandi. Tra l’altro questo è l’unico caso in cui non è stato assegnato lo scudetto, a parte quelli del 1943/44 e 1944/45, ma in questo caso il campionato non fu disputato. Personalmente trovo anacronistiche queste richieste. Restano, comunque, vicende interessanti sotto l’aspetto storico, soprattutto quella del Torino che propone corsi e ricorsi storici rispetto alla corruzione nel mondo del pallone”.
Nella prima metà del secolo scorso il calcio non era nettamente lo sport più popolare. Come e perché, secondo lei, si è realizzato questo ribaltone?
“Non è esattamente così. Il calcio, se escludiamo il periodo precedente alla Grande guerra, dove comunque l’interesse del pubblico iniziava a crescere, ha avuto un forte incremento durante il ventennio, con numeri simili a quelli odierni. Due i fattori principali che hanno fatto alzare la curva dell’interesse. Il primo è sicuramente la politica sportiva del fascismo con la costruzione, nel decennio a cavallo tra gli anni venti e trenta, di oltre 2500 stadi, ampliando di fatto la pratica calcistica e le affiliazioni. Il secondo è l’interesse che il fascismo pose su questa disciplina per favorire la sua azione propagandistica, intervenendo sia finanziariamente che con una fondamentale riforma nel 1926, la Carta di Viareggio, che cambiò radicalmente il volto del calcio proponendo un’immagine più allineata con i tempi e con l’interesse del pubblico. Non è un caso che il regime abbia voluto organizzare la seconda edizione del Campionato Mondiale nel 1934 che rappresentò uno successo economico e di pubblico, e non ultimo sul piano sportivo con la conquista del titolo. Anche su questo il libro è molto preciso ed esaustivo”.
C’è un capitolo del libro a cui è particolarmente affezionato?
“Sicuramente il Ventennio, sotto l’aspetto sportivo, è interessante e rappresenta la prima vera evoluzione del calcio da disciplina quasi anonima – e comunque allineata per interesse, con altri sport come il ciclismo e il pugilato – a disciplina di rango. È un discorso molto articolato. Vi faccio un esempio. Il calcio è stato il primo sport, grazie anche all’evoluzione nel campo dei trasporti, a spostare le grandi masse di tifosi da una parte all’altra dell’Italia. Prima il tifo era, di fatto, stanziale e circoscritto al proprio territorio. Grande impulso a queste “transumanze” lo diede la Juventus di Edoardo Agnelli, mattatrice di tutti i campionati tra il 1930 e 1935, che trascinava con sé, in giro per l’Italia, queste masse. Poi l’immagine dei primi grandi divi del calcio prestati alla pubblicità. I guadagni eccessivi, rispetto ad atleti di altri sport. Insomma, sono tutti argomenti interessanti che danno il quadro esatto di come, nel bene e nel male, questo periodo, disastroso per la nostra storia, sia stato per il calcio fondamentale”.
Qual è la sua idea sulla situazione del calcio nel nostro paese in questo momento con l’emergenza Covid che condiziona tanti ambiti?
“È una situazione complessa a cui si cercano di dare continuamente delle risposte. Non è facile, neanche per il calcio, che sta provando, con sforzi enormi, di garantire una continuità, almeno tra i professionisti. I protocolli adottati sono molto rigidi ma come abbiamo visto il rischio di contagio c’è sempre. Personalmente sono convinto che il calcio, almeno a questi livelli, debba continuare. È un messaggio importante che arriva alla gente. Non dico che sia una parvenza di normalità ma aiuta molto ad affrontare questa pandemia”.
Pensa che lo sport dilettantistico sia stato penalizzato?
“Le rispondo come ho risposto, recentemente, ad una sua collega e ripeto che siamo di fronte ad una situazione imprevedibile, complessa, difficile da gestire e che nessuno di noi ha mai affrontato. Ci sono di mezzo situazioni delicate, la tutela delle persone e da quello che abbiamo visto, almeno al momento, l’unico strumento in grado di dare qualche risultato è il distanziamento. Il mondo dei dilettanti, per la sua vastità, per le sue implicazioni nel quotidiano, per la fascia di utenza trasversale che coinvolge a livello di singola società non è in grado di attivare tutti quegli strumenti di prevenzione necessari e anche questi non sarebbero sufficienti come abbiamo visto nel mondo professionistico. Recentemente è stato sospeso anche l’unico campionato dei Dilettanti in attività, la serie D, che nonostante sia più strutturato dal punto di vista organizzativo, ha visto più della metà delle partite dell’ultima giornata rinviate. Questo vuole dire che bisogna prendere delle decisioni che prima salvaguardino la vita umana e poi lo sport. Per cui non userei in termine penalizzazione ma parlerei di attenzione verso questo mondo, di prevenzione necessaria, di una pausa di riflessione affinché tutto possa ricominciare nella massima sicurezza. In un mondo in cui criticare è facile, mancano, a fronte di queste critiche, delle soluzioni. Adesso la priorità di tutti è tenere in piedi il sistema Italia e tutti gli sforzi e i sacrifici debbono essere rivolti a questo obiettivo”.
Lei si è fermato nella ricerca fino al 1949. Crede che l’evoluzione del calcio (molto più vincolato al marketing e al business) in questi ultimi anni sarebbe stata prevedibile?
“Non è un caso che questo primo volume concluda la sua narrazione con la tragedia di Superga. Questo episodio, sicuramente drammatico, che ha violentemente scosso l’immaginario collettivo all’epoca, rappresenta una diga tra il vecchio modo di intendere il calcio e la sua inevitabile evoluzione. Negli anni Cinquanta il modello della società italiana ha subito profondi e radicali cambiamenti che lo hanno portato al boom degli anni Sessanta. I grandi capitali in circolazione sono entrati, inevitabilmente, nel calcio e ne hanno accelerato la crescita ma anche le disfunzioni cambiando completamente la prospettiva rispetto a quel calcio più romantico ed eroico del periodo prebellico. Ma di questo parlerò nel prossimo volume”.
©Articolo di Federico Mariani ITASport Press